Nei giorni 5/6/7 dicembre 2015 al Museo_MAN ho avuto la possibilità di partecipare ad un workshop di fotografia sull’autorappresentazione con Zanele Muholi e Lindeka Qampi, in Sardegna grazie alle residenze d’artista: due fotografe sudafricane note a livello internazionale per il loro attivismo visivo legato alla sperimentazione e all’utilizzo dell’autorappresentazione come metodo e processo narrativo per l’autodeterminazione delle proprie comunità, dando visibilità a culture emarginate e discriminate, nell’ottica di un riscatto estetico, visivo e sociale.
Questa la proposta: “Durante il workshop verranno affrontate diverse tematiche: dall’attivismo visivo all’archivio di una comunità, dal racconto di famiglia all’autoritratto, fino all’era digitale del selfie (self-identification). Si parlerà inoltre di attivismo, comunità, partecipazione, azione, responsabilità sociale.”
Seguo da anni, a distanza, le attività Zanele, che con le sue foto ha dato un contributo fortissimo alla rappresentazione e costruzione dell’immaginario nella comunità lesbica e lgbtq, non solo Sudafricana, e sono felice di aver avuto modo di conoscere, in quest’occasione, anche il lavoro di Lindeka. Entrambe le artiste avevano precedentemente esposto in Sardegna e, al termine del workshop, per la prima volta a Nuoro, dove si è tenuta una mostra al MAN, AZOLA / Somnyama Ngonyama: a cura di Emanuela Falqui, Erik Chevalier e Laura Farneti (…) una selezione di opere incentrate sull’attivismo visuale e la politica dell’autorappresentazione, più una nuova serie di scatti realizzati in Sardegna.
Dell’esposizione facevano parte anche i lavori delle persone partecipanti allo stesso ws: Cristina Pira / Alessandra Cecchetto / Anna Zurru / Gigi Murru / Stefano Pia / Emanuela Cau / Simone Loi / Lucia Cadeddu / Katia Marroccu / Veronica Muntoni / Medea Laura Pace / Stefania Muresu / Leonardo Boscani / Rita Delogu / Chiara Coppola / Giulia Casula / Melania Massa / Moju Manuli / Paolo Bianchi / Franco Casu / Michela Mereu / Antonio Mannu / Francesca Corriga.
Già dopo l’incontro del primo giorno ci è stato dato il compito di autorappresentarci e mi sono trovata un pò in difficoltà. Ci ho messo ore fra brainstorming e ragionamenti e, alla fine, anche visto il tempo strettissimo ho lavorato molto sulle simbologie: ho scelto degli oggetti per me importanti, significativi, ornandomici. Mi sono autorappresentata in forma di bruja, con una serie di scatti per realizzare i quali mi sono dipinta una fascia nera sugli occhi, a farli risaltare ma anche a creare una sorta di maschera (un pò anche tipo supereroa) giocando sul discorso visibilità/invisibilità; ho messo il rossetto rosso e ho indossato abiti e gioielli a me cari: il mio mesissallu (scialle) dorgalese in tibet ricamato con rose rosse, la mia vardetta (gonna tradizionale sarda di uso quotidiano) appartenuta a mia nonna, una collana antica di pietrine nere e cocchi d’oro – prainnostres, sempre di nonna, una collana di perline rosse regalatami da una amica-sorella, Jelly, la fede sarda e sas loricas de rodedda.
Quando mi fotografo do agli oggetti e alle posizioni che scelgo un forte valore simbolico. In quest’occasione ho scelto due linee principali tra quelle che caratterizzano il mio percorso: l’identità sarda e mediterranea e il lesbismo – il paganesimo antico, legato alle figure della MadreTerra, poi, infarina sempre il tutto.
Sono partita dal mio corpo e, non avendo spazi altri a disposizione, ho lavorato a casa mia (una vecchia casa in pietra piccina picciò, un guscio, dove per ritagliare spazio abbiamo lanciato le cose qua e là).
Non è mai semplice autorappresentarmi, anche stavolta è stato serio, sacro, un gioco, amore, pure un pò frustrazione, e scoperta. Dovevo capire, in un tempo molto breve, chi ero, per poterlo poi dire, mettermi a nudo e mettermi “in scena”, principalmente per me stessa.
Man mano che scattavo ho cominciato anche a giocare un pò davanti all’obiettivo e provare varie “figure”. Ho realizzato qualche autoritratto interessante ma, le foto che per me sono più significative sono quelle realizzate insieme a Melania, con la quale ho condiviso le giornate del ws, le riflessioni che ne son seguite e i “compiti a casa”, un’amica che mi muove molte cose dentro, una piccola musa che ha risvegliato in me desideri e creatività. Ho chiamato questi scatti Suta ‘e s’ajone e ho scelto di riportare qui l’ultima foto della serie, che amo particolarmente.
Nelle foto “a due” ho cercato di dare un messaggio: sia indirizzato alle “altre” – le lesbiche e le donne con le quali sono legata da invisibili e potenti fili – che a me stessa, come per ritrovarmi, ricollocare la mia mutevole identità e corrispondermi.
Generalmente tendo ad autorappresentarmi da sola, mentre stavolta ho appunto scelto di farlo assieme ad un’altra donna per evidenziare la mia identità come lesbica, e di quest’ultima ho voluto mettere in rilievo la caratteristica di relazione. Perché per definirti come lesbica passi attraverso il rapporto, il legame con l’altra, con le altre: ho quindi messo l’accento sulla relazionalità come parte dell’identità.
Gli sguardi che si incontrano diretti creando una connessione, i sentimenti che si mescolano mentre ce ne stiamo riparate fra le pietre antiche, il rosso, l’olivastro, il nero, il bianco e il blu, il sonno che incombe, sempre, mai, fuori dal tempo, ovunque, in ogni luogo che scegliamo e da nessuna parte, sotto un vassoio di sughero, s’ajone appunto, come sotto un fungo o un nascondiglio sicuro. S’ajone che viene comunemente usato per contenere delle pietanze, altro rimando magico a ciò che ci alimenta e ci nutre (in questo caso noi stesse siamo il nostro nutrimento).
Per potermi dire siamo state in due.
Non sono una fotografa e non è una “gran foto”, ma ci ho messo dentro tutto questo.
Riporto, ad accompagnare questa visione, un estratto da Monique Wittig Cantora dell’Indicibile di Simonetta Spinelli:
<< Ne Il corpo lesbico lo stravolgimento delle regole letterarie e linguistiche – mescolamento dei generi letterari, eccesso nelle immagini e nella terminologia, gioco continuo di iperboli – raggiunge il suo apice. Il tempo quotidiano è scomposto e ri-composto nel tempo del desiderio e lo spazio si dilata e restringe solo a dimensione della materialità tra due corpi di donne. Una materialità costitutiva di soggetti mobili, transumanti, in divenire, al di là dei ruoli, agenti del desiderio e agite dal desiderio: l’amante/amata, l’amata/amante. Nel rapporto tra due donne motivate dal desiderio – l’una per l’altra e l’altra per l’una – tutto si scardina, tutto si ri-considera. Non ci sono limiti perché esiste solo la propulsione a una conoscenza altra innescata dal desiderio. Tra l’amante/amata e l’amata/amante si costruisce una pratica d’amore che è furia di conoscenza, così altra da quanto è codificato che deve inventare il suo linguaggio e la sua pratica, è necessitata a creare il suo sistema di segni.
Il corpo lesbico, corpo del desiderio di una donna per una donna, non può essere rappresentato in termini convenzionali. E’ il corpo impudente che vive l’interdetto, è il corpo che non può essere addomesticato, reso oggetto, parcellizzato.
Non è solo seno, vagina, glutei, ma è derma, cellule, muscoli, tendini, umori, fibre, vene, arterie, midollo, e il percorso d’amore diventa l’epopea – intramezzata da elenchi umoristicamente tratti da manuali di medicina – di una ricerca durante la quale tutto deve essere riscoperto, ri-significato, per corrispondere al desiderio che lo origina. Il soggetto di quel desiderio e di quel percorso è a sua volta un soggetto che affronta il rischio della perdita di sé, dei propri confini, il rischio della disintegrazione per potersi ricostruire in corpo desiderante.
Un corpo lesbico. Né femminile né maschile, perchè il femminile e il maschile sono il portato di una convenzione che il corpo lesbico, nella sua decostruzione/ricostruzione di sé per sé, rende privo di senso perché appartenente ad un altro – estraneo – sistema di segni.
Wittig non lascia spazio ad equivoci: perchè il corpo lesbico costruisca la sua esistenza non è sufficiente una donna, sono necessarie due donne, ognuna amante/amata, desiderante/desiderata dall’altra e ambedue mosse, proprio da quel desiderio, a costruirne la dimensione di vivibilità, il linguaggio, la pratica, a “riconoscerlo in un’altra semiotica” (T.deLauretis, Differenza e indifferenza sessuale, Estro, 1989).>>
Dedico questo lavoro a Luki Massa & Fuoricampo Lesbian Group che per anni hanno insistito sulla visibilità lesbica, regalandoci con attività e festival tantissimi stimoli e permettendoci di arricchire la nostra identità, cultura, e il nostro bagaglio lesbico.
…visibilità in termini di rivendicazione irrinunciabile all’esistenza di lesbica. Il lesbismo è rivoluzionario quando è visibile e la visibilità lesbica è fondamentale per decostruire modelli e stereotipi. (…) Visibilità come autorappresentazione della specificità lesbica, all’interno ed all’esterno della comunità, attraverso l’elaborazione e la costruzione di pensiero e azioni: comunità è uguale a visibilità. [Fuoricampo Lesbian Group]
[Sul mio tumblr trovate la versione in inglese di questo post. ♥ Ringrazio di cuore per la traduzione e la revisione della stessa peacefulaggro e Valéria. ♥]